Il Cohousing per la demenza al tempo del COVID 19

Il Cohousing per la demenza al tempo del COVID 19

Oggi è il mio turno spesa. Capita una volta al mese, ma mai come in questo periodo lo faccio volentieri.
La stradina è tranquilla. Lo è sempre e se possibile lo è ancora di più in questi giorni di restrizione alla mobilità. Nel silenzio si possono sentire i tintinnii delle campane a vento (ne abbiamo appese un po’ dovunque) che s’intrecciano con i richiami degli uccellini che godono appieno la bellezza di questa primavera sfacciata, dell’aria senza smog, della città silenziosa. Quando mi avvicino al muro di cinta della villetta, intravedo la mia mamma che passeggia nel giardino pieno di fiori con la sua andatura un po’ rallentata. Non è molto anziana, ma da una decina d’anni è malata di Alzheimer e la progressione inesorabile della malattia rende necessario che lei sia accudita anche per lo svolgimento delle attività più semplici. Ormai fatica a parlare e anche a camminare, tuttavia è ancora così bella con il foulard e il suo cappellino viola a tesa larga! Le signore che la accudiscono, e che sono con noi da molti anni, fanno in modo che lei sia sempre curata ed elegante, proprio come quando stava bene e poteva provvedere da sola al suo abbigliamento.

Non so se oggi mi riconoscerà, anche perché indosso la mascherina, ma la mia voce riesce ancora a strapparle un sorriso. E mi sento davvero molto fortunata. Sono felice per lei, per la soluzione che ho trovato per lei, la coabitazione nel Cohousing Demaison (1).
Mi fa rabbrividire il pensiero che, se fosse ricoverata in una struttura, anche nella migliore delle strutture, in questo lungo periodo di quarantena non avrei potuto vederla.Mi sono identificata in quei familiari, persone come me, che sono stati private anche dell’abituale grado di accudimento che potevano dare ai propri cari e che in qualche modo li faceva sentire più sereni. Che hanno paura di perdere questi affetti senza nemmeno un vero commiato. Un dolore lunghissimo da sostenere.
Come tutti ho negli occhi le immagini delle bare accatastate e nel cuore le parole di quell’anziano signore, dignitoso ed elegante anche nella sofferenza e nella morte, che lamenta la mancanza di un sorriso, di una carezza, la mancanza di rispetto per lui e il suo modo, speciale e unico, di essere al mondo.Mi ha stretto il cuore la sua perdita e quasi ancora di più la perdita di tutti quelli, senza voce, che non hanno saputo o potuto trovare parole così precise, pacate e sagge per descrivere il proprio dolore. Penso agli altri anziani e ai malati di demenza come la mamma, a tutti quelli che l’emergenza Covid non la capiscono poi tanto bene, anche se gliela spieghi più volte, e che, in effetti, si sentono proprio traditi e abbandonati dai familiari, che non vedono da molti giorni.
Certo ho visto in televisione operatori di buona volontà che cercavano di mostrarglieli su un tablet, ma so per esperienza che per un malato di demenza è proprio come guardare una fotografia, una diavoleria che non serve proprio a nulla, che non gli scalda il cuore. Non li rassicura dallo spavento che provano per il clima di inquietudine che percepiscono intorno a sé, o per la paura che incutono le figure imbacuccate degli operatori che si aggirano tra loro ancora più frettolosamente del solito, che si tengono a distanza di sicurezza, anche emotiva, perché certo non deve essere facile veder morire come mosche le persone che stai accudendo, alle quali magari potresti anche affezionarti, perché ti fanno simpatia, perché ti fanno pensare ai tuoi nonni… Per fortuna in Friuli non abbiamo avuto così tanti contagi come in altre regioni d’Italia a noi vicine, ma anche qui decessi hanno riguardato in buona parte ospiti delle case di riposo.

Ovviamente per tutta questa sofferenza si stanno cercando responsabilità ed errori, una risposta al dramma, e viene piuttosto facile puntare il dito contro le strutture residenziali protette. Personalmente non credo che sia del tutto corretto cercare i colpevoli tra le file degli OSS, degli infermieri, o dei dirigenti delle case di riposo. È piuttosto Il sistema che non ha retto. Forse quanto è accaduto in questa situazione di emergenza ha semplicemente portato allo scoperto un problema che già c’era, ma che si preferiva ignorare. Forse la pandemia di Covid 19 ci costringe finalmente a prendere atto del fatto che è una contraddizione in termini chiedere personalizzazione e una cura attenta e sensibile a una struttura che già nei grandi numeri dell’accoglienza è spersonalizzante…Con un personale cui si chiede più di essere veloce che sensibile, per rispettare i tempi, certo, per la funzionalità di una struttura complessa, anche senza voler pensare a motivi puramente economici di risparmio o di lucro, che pure potrebbe essere, purtroppo, la motivazione di alcuni imprenditori. È un po’ come chiedere a un abito industriale di avere cuciture e dettagli fatti a mano e di adattarsi perfettamente a quel nostro particolare fisico, a quelle nostre specifiche esigenze. Magari è un abito magnifico, di ottima qualità, ma non è fatto su misura per noi e ce ne dobbiamo fare una ragione.
L’alternativa che si dà per scontata, quella cui generalmente si fa riferimento parlando di sostegno alla domiciliarità, è quella dell’assunzione di un’assistente familiare, la cosiddetta badante. In tempi di “pace” questa modalità rassicura e convince molti familiari in quanto il malato rimane nella propria casa e l’assistenza è certamente personalizzata. Naturalmente anch’io l’ho valutata, anni fa, ma mi sono resa conto che non solo non mi avrebbe consentito di proseguire nella mia attività professionale il dover coprire le assenze dell’operatrice durante le pause dai turni di lavoro e che il piccolo appartamento di mia madre si sarebbe trasformato in una gabbia, uno spazio inadeguato a contenere il suo bisogno di muoversi senza sosta (wandering) e l’affaccendamento, ma soprattutto che è una modalità assistenziale decisamente povera di stimoli per il malato e che porta spesso al burnout della badante, in buona parte per la mancanza di una dimensione sociale per entrambi. È ormai ampiamente dimostrato che la vicinanza dell’altro, il ritmo della condivisione, lo sguardo che ti accoglie e ti sostiene sono essenziali per tutti gli esseri umani e che nel caso dei malati di demenza la relazione diventa addirittura uno strumento terapeutico centrale e potente.
A causa della pandemia, oltre a questi elementi, sono emerse nuove criticità di questa modalità assistenziale che si è trasformata per molti in un incubo. Alcune badanti, quelle che ci sono riuscite, sono rientrate nel loro paese di origine allo scoppio dell’emergenza sanitaria, lasciando le famiglie dei loro assistiti in grosse difficoltà; altre sono rimaste bloccate qui a causa della chiusura delle frontiere, costrette da quasi due mesi a lavorare senza soluzione di continuità, a convivere con i loro assistiti e le loro difficili patologie senza potersi prendere nemmeno una pausa di svago e di ristoro. Dubito davvero che possa essere un’assistenza di qualità quella prestata da una persona che si trovi in uno stato di così grave disagio. Soprattutto quando parliamo della cura di un malato di demenza al quale è molto difficile spiegare le restrizioni e le necessità dettate dal pericolo di contagio.


Invece la realtà di cohousing che ho creato ormai da sette anni per la mamma è “sartoriale” e anche in questa fase di emergenza pandemica si è rivelato una scelta vincente. Essendo Interamente autogestito, tocca a me, e ai familiari degli altri due residenti prendere ogni tipo di decisione. Purtroppo sono state inevitabili alcune limitazioni; abbiamo dovuto interrompere una serie di attività che avevamo scelto, tenendo conto dei gusti e della fase avanzata della malattia, per arricchire di senso e di stimoli la giornata della mamma e degli altri co- residenti. Niente laboratorio artistico in questo periodo, niente shiatsu o campane tibetane. Abbiamo ovviamente ritenuto di essere prudenti e di proteggere il più possibile la sicurezza di questa oasi, nell’interesse dei nostri cari e delle due operatrici residenti. Veniamo qua molto più raramente di prima, soprattutto per portare la spesa, per i farmaci, per risolvere qualche piccolo problema della casa. Quasi sempre ci limitiamo a sostare in giardino nell’ora in cui la mamma e gli altri si crogiolano nel sole, socchiudendo gli occhi con piacere, proprio come i gatti del vicinato, che lo scelgono spesso come teatro di giochi e scorribande. Certo la mamma sente la mancanza delle coccole, dei baci e delle carezze che le davo prima del Covid 19. Entro solo indossando camice, mascherina, guanti di lattice, ma posso esserci. Posso vedere con i miei occhi il suo benessere. Posso accarezzarla con la mia voce.
Posso anche rassicurare le signore, poverine anche loro, che sono lontane da casa e sentono storie sconfortanti. Una loro collega, ad esempio, morta per il Covid 19 e le cui ceneri non sono ancora state restituite alla famiglia, altre che hanno tentato di rientrare in patria, ma sono state fermate ai confini. Ma soprattutto sentono i racconti di quelle colleghe, tante, che dal lockdown sono state intrappolate, ostaggio del Covid 19, in una casa con un assistito, magari un malato di demenza, e non possono più allontanarsi, a causa delle restrizioni alla mobilità e al fatto che i familiari, a loro volta, sono limitati nella possibilità di intervenire per le sostituzioni. Mesi senza potersi concedere le pause di meritato riposo e si sentono infinitamente sole, senza nemmeno le quattro chiacchiere che si scambiano abitualmente ai giardinetti pubblici. Una situazione così insostenibile da farle immaginare di rinunciare a prossimi incarichi e non riprendere più il lavoro una volta che abbiano riguadagnato il proprio Paese.
Le nostre signore invece, sia le due residenti sia la terza che le supporta alcune ore settimanali, hanno continuato a svolgere come d’abitudine e con relativa serenità il proprio lavoro, ma anche i propri turni di riposo. Sono state limitate ovviamente, proprio come tutti noi, nell’uscita da casa, ma essendo in due Si fanno compagnia e si sostengono a vicenda. Considerano la Demaison un po’ la loro seconda casa e noi siamo una specie di famiglia. Sentono, come me e gli altri familiari, di appartenere a una vera comunità, nel senso letterale del termine, di essere parte di un gruppo di persone che compie un incarico assieme, che partecipa di un onere condiviso. Un obbligo che è allo stesso tempo un dono, come suggerisce la parola latina munus da cui deriva.
Il compito straordinario che ci è stato affidato e che ci accomuna, il nostro dono, è l’aver cura con pazienza e con rispetto di tre persone malate di demenza, della loro storia, delle loro fragilità e delle abilità che ancora conservano, facendo loro sentire quanto sono ancora importanti e degne di attenzione, restituendogli un’immagine positiva di sé.


Non vedo l’ora di poter riabbracciare la mamma, perché so che il linguaggio del contatto è il più forte di tutti, viene prima della ragione e ci accompagna oltre il disgregarsi della stessa. Anche quando ogni altra forma di comunicazione è andata perduta, può generare comprensione e fiducia, far sentire protetti sia contro i pericoli esterni che contro lo sconforto interno. Con il mio abbraccio contemporaneamente fisico e psichico, posso onorare la sacralità del suo esserci nel mondo, fino all’ultimo istante della sua vita.

(1) Il cohousing cui si fa riferimento è un progetto pilota che è stato costituito nel 2013 per iniziativa autonoma di tre famiglie di Udine con lo scopo di accogliere tre persone malate di forme precoci di demenza. L’Associazione Demaison promuove e sostiene questo progetto di coabitazione assistita, favorendo la costituzione di nuovi nuclei abitativi, impegnandosi nell’informazione e formazione dei caregiver familiari e del personale addetto all’assistenza e nella sensibilizzazione dei cittadini.

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