Il cohousing per la demenza: come nasce e si sviluppa una realtà di assistenza alternativa

Il cohousing per la demenza: come nasce e si sviluppa una realtà di assistenza alternativa

Da qualche mese a Udine è attivo il secondo cohousing per malati di demenza promosso dall’Associazione Demaison, una ONLUS che svolge, oltre alle iniziative di sensibilizzazione e formazione, attività concrete di supporto organizzativo ai care giver familiari orientati verso questa soluzione assistenziale. Demaison, infatti, facilita l’avvio e la gestione delle realtà di coabitazione assistita e la sperimentazione di un modello innovativo di domiciliarità fondato sulla sussidiarietà solidale e sul welfare dal basso, come già realizzato nel progetto pilota attivo in Friuli dal 2013.

Nelle coabitazioni assistite in piccoli nuclei residenziali (tre o quattro persone) i malati di demenza sono accolti in un ambiente domestico, familiare, protetto, attrezzato in modo funzionale e assistito da personale qualificato. Pur non convivendo con loro, i familiari autogestiscono parzialmente la residenza, partecipando attivamente alla cura dei propri cari. Realtà di questo tipo consentono la massima personalizzazione, il permanere di relazioni sociali, di limitare i momenti di isolamento, apatia e inattività e di mantenere il più a lungo possibile l’autonomia. Quando è ben realizzata, la condivisione consente di fronteggiare al meglio l’evento drammatico della demenza, favorisce nei familiari l’acquisizione di meccanismi adattativi creativi, contribuisce alla crescita personale e trasforma l’assistenza in un “lavoro di squadra”. Consente inoltre di ottimizzare le risorse economiche delle famiglie coinvolte.
La scelta del cohousing tuttavia non deve essere frettolosa, dettata dallo stress e dall’urgenza, ma consapevole e responsabile. Si tratta, infatti, di rinunciare alle soluzioni assistenziali precostituite. Inoltre la progettazione e la realizzazione della convivenza, allo scopo di garantire ai malati un’assistenza etica, più rispettosa e personalizzata, all’interno di una piccola comunità, richiedono capacità di interazione e di condivisione, l’accettazione di differenze, dinamiche e possibili imprevisti, in un clima di reciproco aiuto e di supporto.
In che modo dunque si arriva alla costituzione di un nucleo di cohousing?
Generalmente il familiare che si presenta alla porta dell’Associazione Demaison ha ricevuto da qualche anno la diagnosi di demenza. Ha lo sguardo dell’abitante di una città assediata, braccato dall’ansia e dalla stanchezza e tuttavia carico di frustrazione, umiliazione e sconfitta per quella richiesta di aiuto, che percepisce come una resa, quasi un fallimento.
Soprattutto quando si tratta di mogli, quel “non ce la faccio più”, sussurrato fra le lacrime, è vissuto come il tradimento della promessa solenne fatta davanti a testimoni di aver cura l’uno dell’altro “finché morte non ci separi”. Per quanto, dolorosamente, la persona che accudiscono non sia più percepita come la stessa assieme alla quale hanno affrontato difficoltà e generato figli, con cui hanno condiviso spazi ed emozioni, ma una creatura per la quale provano un misto di pietà e di vergogna, rabbia e sollecitudine, non possono vivere il lutto che ne consegue. Il partner è vivo, il loro compito di accudimento non è concluso.
Hanno pudore nel dichiarare il proprio sfinimento e i motivi che li spingono a immaginare una delega nell’accudimento del proprio congiunto. Decadimento cognitivo e disturbi comportamentali sempre più gravi, notti insonni… sono percepiti come cose che non si dicono, che “non si possono dire”.
A volte sono i figli a bussare alla porta di Demaison. Vengono perché sono preoccupati per il genitore curante, il care giver che sta dedicando tutte le sue energie al partner malato e rischia di ammalarsi a sua volta. Oppure, quando il malato non ha un coniuge, cercano una soluzione che garantisca sicurezza e assistenza adeguate al genitore affetto da demenza, ma che nel contempo consenta loro di continuare a vivere la propria vita di relazione o a svolgere le proprie attività professionali, spesso in località lontane dalla casa del malato.
Nello sguardo dei figli a volte prevale la delusione e un rimprovero muto per il genitore che in qualche modo, ammalandosi, ha abdicato al suo ruolo, di mentore e guida; che invece di accudire i nipotini, chiede di essere accudito, troppo, o troppo presto. Alcuni a volte sono anche spaventati per il proprio futuro, poiché hanno sentito parlare dell’ereditarietà di alcune forme di demenza.
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Amore, coraggio e speranza tuttavia non sono spenti del tutto. Trattandosi di persone resilienti, pur nella diversità di età e di caratteristiche comportamentali, non soccombono all’impatto con la malattia e con le difficoltà dell’assistenza, ma, pur nell’angoscia e nella stanchezza, mettono in atto strategie riparative e creative. Per questo generalmente partecipano a corsi e incontri che forniscono gli strumenti necessari per comprendere e infine accettare sé stessi e i propri vissuti, per interpretare i comportamenti e le difficoltà dei malati e consentono opportunità di confronto, quindi di offrire un’assistenza di buona qualità.
Tutti hanno già costatato l’impossibilità dei farmaci di fermare la malattia, hanno fatto esperienza dei centri diurni che, soprattutto nelle fasi iniziali, hanno arrecato un certo sollievo e consentito ai malati di continuare a mantenersi attivi, ma che da una certa fase in poi, a causa dell’aggravamento, non bastano più. Spesso hanno anche già sperimentato le difficoltà e i disagi conseguenti all’assunzione di un’assistente famigliare, sia di gestione della parte amministrativa, che per conciliare i propri impegni con le sostituzioni nelle ore di riposo e nelle festività; senza contare che spesso hanno dovuto fronteggiare gli “improvvisi abbandoni” determinati dal burn out delle operatrici.
Infine hanno visitato delle strutture di accoglienza, scoprendo che quelle riservate ai malati di Alzheimer purtroppo sono poche e hanno insufficienti posti letto rispetto al fabbisogno.
Inoltre questa forma di delega assoluta, l’idea di incontrare i propri cari da visitatori, come estranei, pur nella fiducia e nell’apprezzamento per le capacità e la professionalità del personale, è uno strappo troppo doloroso. Le relazioni affettive si nutrono della trama di riti e consuetudini, per cui è importante che i familiari non siano privati del loro ruolo di testimoni e custodi delle piccole abitudini quotidiane, delle preferenze, delle idiosincrasie che fanno di una persona proprio “quella persona”, anche se il malato, forse, non ne ha più il ricordo.
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Di fronte all’impossibile scelta tra rinunciare ad aver cura di sé e della propria vita o rinunciare a garantire un’assistenza etica e di qualità al malato, alla fine hanno deciso di immaginare una soluzione alternativa, una nuova via.
È così che si sono sentiti spinti a cogliere la proposta innovativa dell’Associazione Demaison, a sperimentare l’opportunità del cohousing e a partecipare agli incontri e ai colloqui preliminari alla realizzazione del progetto di coabitazione.
Questa fase è la più complessa e delicata, in quanto le famiglie devono imparare a conoscersi, verificare compatibilità e affinità su tutti gli aspetti: economici, pratici e normativi; ma anche comprendere a che cosa si è disposti a rinunciare, che cosa è imprescindibile, che cosa ci aspettiamo dai coresidenti… è importantissimo che si crei un clima di reciproca fiducia nella consapevolezza che un buon rapporto tra i familiari si traduce in un’atmosfera serena e quindi nel benessere dei malati.
Tra i partecipanti, spontaneamente, alcune famiglie trovano motivazioni e spinte di aggregazione.
Così è avvenuto, ad esempio, tra le mogli di due “malati giovani” (la malattia può avere un esordio molto precoce) e le figlie di un uomo più anziano, che hanno scelto di proseguire il percorso assieme, a partire dalla ricerca di una casa.
Demaison ha sostenuto il progetto anche proponendo un immobile adeguato alla realizzazione del cohousing: una grande casa priva di barriere architettoniche, in grado di garantire a ognuno spazi privati personalizzati, ma anche ampie zone comuni, ubicata in città, ma in una strada tranquilla e poco trafficata, circondata da un giardino che consente il vagabondaggio in libertà e sicurezza.
Il passaggio più temuto dalle famiglie è stato l’inserimento dei malati. Sembrava loro impossibile che questi tre uomini, quello autorevole e con i baffi asburgici, quello introverso e riservato o l’ex dirigente operoso e stimato, potessero accettare di convivere fra loro, con persone che non conoscevano affatto, in un luogo per loro estraneo.
Invece l’inserimento, che è avvenuto in modo graduale la scorsa primavera, è stato positivo. Grazie ad una forma di comunicazione non verbale, tra i malati si è creata quasi subito comprensione e solidarietà, il senso di appartenenza a un gruppo; hanno imparato a convivere serenamente, dandosi aiuto e sostegno reciproci, fino ad amare passeggiare in giardino tenendosi per mano. Pur potendo disporre ognuno di una propria camera da letto, i due malati più giovani hanno addirittura “manifestato” il desiderio di dormire assieme, dimostrando quanto gli sia di conforto la reciproca presenza.
Seguendo il modello del progetto pilota, la gestione complessiva è affidata ai familiari che, in base a dei turni concordati, provvedono alla spesa alimentare e a tutte le necessità di ordinaria e straordinaria manutenzione che si possono presentare in una casa. Naturalmente le decisioni relative agli acquisti e agli interventi più significativi vengono prese collegialmente in riunioni che si svolgono con scansione mensile e che rappresentano anche opportunità di condivisione e di confronto.
I familiari possono condividere con i malati la quotidianità: pranzare assieme, trascorrere anche la notte assieme, come è avvenuto, soprattutto nella fase iniziale, a una delle coppie di coniugi, che in questo modo ha superato più serenamente il momento della separazione. Inoltre, in base al tempo di cui dispongono e alle specifiche attitudini, le famiglie prendono parte ad alcune attività ricreative e occupazionali.
Per quanto riguarda le operatrici, nel progetto pilota è stato verificato che il rapporto ottimale, per ottimizzare le spese e avere un servizio efficace, è di due assistenti residenti per tre malati. E’ prevista l’eventuale presenza, saltuariamente, di un terzo operatore che interviene alcuni giorni o in supporto a specifiche attività.
Il reclutamento delle assistenti familiari rappresenta una fase delicata, che necessita di formazione e di supporto. Capita, infatti, che si dimostrino “spaventate” dal cohousing, sia perché si tratta di una realtà nuova, di cui non hanno esperienza, sia perché temono il rapporto troppo stretto con delle colleghe, le gelosie e le possibili prevaricazioni. Solo dopo averne fatto esperienza possono rendersi conto dei vantaggi che questa situazione offre anche per loro. Infatti, la condivisione e il confronto, fra loro e con i familiari, rende più leggera e stimolante la quotidianità dell’assistenza e la ripetitività dei compiti da svolgere, che spesso portano al burn out.
Negli inevitabili momenti di difficoltà e davanti ai dubbi è stato di conforto per le famiglie coinvolte fare riferimento al modello presente da anni sul territorio, cui questo secondo cohousing si ispira, e dal quale tuttavia si discosta per molti aspetti, proprio come ogni famiglia è diversa dall’altra. La possibilità di personalizzazione “sartoriale” contraddistingue, infatti, la proposta assistenziale dell’Associazione Demaison.
Essendo attivo solo da pochi mesi è ancora in fase di stabilizzazione. Ad esempio non sono ancora state avviate alcune attività occupazionali che, anche grazie all’aiuto di volontari, dovrebbero prendere avvio in autunno, ma la sensazione è già quella di una “famiglia”, dove non si provano più sentimenti di vergogna o di solitudine, dove ci si sente più forti e sostenuti non solo nell’affrontare la demenza, ma anche nella condivisione degli altri eventi della vita, che continua, a prescindere da tutto. Nella sua breve vita il gruppo ha già affrontato l’intervento chirurgico di uno dei familiari e ha salutato con gioia la nascita di un nipotino.
Pur nella consapevolezza che non ci sono soluzioni che possano eliminare del tutto i sentimenti di disagio e la sofferenza connessi con la demenza di un proprio caro, che la “perfezione” non esiste e che ogni esperienza può essere migliorata, il rispetto, la forza e la serenità ritrovati grazie alla condivisione si possono considerare degli ottimi traguardi.

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